Brigata Nino Stella

Eroi della resistenza nel vicentino

Fu una giornata strana il 5 giugno 1944  perché in essa si avvennero alcuni fatti, apparentemente slegati tra loro ma che poi si intrecciarono tragicamente. Ne ricordiamo tre che ebbero come epicentro il Comune di Chiampo,  un abitato che si trova nell'omonima Valle che prende il nome dal torrente che la percorre. Il Chiampo nasce da un bacino che culmina con il passo della Scagina lungo la catena che va da Cima Marana, Campetto,  Campodavanti, Monte Gramolon e Monte Zevola, chiudendosi con il Monte Terrazzo sulle Prealpi Venete ai confini con l'altopiano della Lessina Veronese. Dall'abitato più alto, Campodalbero, fino a quello più in basso, Arzignano, la valle misura oltre 20 Km di lunghezza e sul crinale di sinistra confina con la Valle dell'Agno, alla quale praticamente si unisce tra Arzignano e Montecchio. Proprio per la sua conformazione geografica vedremo come nei fatti  di cui stiamo parlando saranno coinvolte due formazioni partigiane che hanno base una nella Valle del Chiampo, la brigata “Vicenza”, e l'altra nella Valle dell'Agno, la brigata “Stella”.

LA BEFFA DELLE RECLUTE

Il primo ebbe luogo la mattina, alla stazione di  Chiampo,  poco prima della partenza del treno delle 7,10[1].  Era lunedì e su quel treno dovevano salire un buon numero di giovani reclute (più di trenta[2])  che rientravano al corpo dopo aver usufruito di permessi domenicali o di licenze. Come sempre i rientri in caserma costituiscono momenti difficili per i giovani militari: si lasciano i famigliari, gli amici, il lavoro, gli interessi e le morose. A questi sentimenti va poi aggiunta anche una certa dose di disaffezione verso un esercito che vedevano ricostruirsi con fatica, con scarsi mezzi, con pochi armamenti e in una Repubblica di Salò che era sempre più condizionata dalla presenza massiccia di tedeschi che imponevano la loro volontà e la loro disciplina.In più quei giovani sapevano che molti loro coetanei erano rimasti invece a casa, si erano nascosti nei boschi e sui monti. Tra  renitenti c'era anche chi  aveva fatto la scelta di diventare “ribelle”, cioè partigiano.
Così alcuni dei militari, probabilmente quelli che si erano arruolati  con meno convinzione, obbligati forse da situazioni contingenti,  o per non compromettere le loro famiglie e le loro cose, avevano preso contato proprio con i partigiani per mettere in scena una operazione che consentisse  a loro di non rientrare al corpo senza conseguenze  e, nel contempo, desse ai partigiani  un ulteriore, importante momento di  visibilità.
Allora, mentre il treno stava per partire con questi di giovani, sbucarono da chissà dove 6  partigiani[3] della Brigata  “Vicenza”, comandati da RINO DE MOMI  n.d.b. “Ciccio”, un ex marinaio originario di Padova. (lo stesso che poi sarebbe stato fucilato a Priabona, nemmeno sei mesi dopo il 1 dicembre 1944). Con un’azione fulminea, i partigiani neutralizzarono i militi repubblicani di servizio, occuparono la stazione, bloccarono il treno e fecero scendere platealmente i giovani militari in partenza.
Li inquadrarono come prigionieri e li condussero via, sui monti.
In tal modo essi non potevano essere considerati disertori e nessuno avrebbe potuto rivalersi sulle loro famiglie. Quasi tutti quei giovani, lasciati liberi quasi subito, non si sono più presentati al corpo. Molti di essi entrarono addirittura nelle file della resistenza armata.
Pensate che umiliazione per i fascisti!

Subito dopo l'azione la figlia del podestà, Bertoli Benita, "impose a certo Taglier Nazzareno di recarsi ad Arzignano per avvisare il Comando Tedesco"[4] 
i tedeschi subito reagirono: appena la notizia di questa azione, condotta senza colpo ferire, giunse ai comandi militari e a quelli del partito fascista repubblicano, fu subito organizzato un poderoso rastrellamento con l'aiuto dei tedeschi,  per setacciare  tutta la zona.

Ad attendere il treno quella mattina per recarsi a Valdagno, c'era anche il maresciallo dei Carabinieri Regi,  Matteo Scauri, che era stato assegnato alla stazione di Chiampo dal gennaio del 1944. Anche lui fu sequestrato dai partigiani e condotto con gli altri in montagna. La sera stessa però egli veniva lasciato libero e ritornava a Chiampo. Il giorno seguente, 6 giugno 1944, veniva tratto in arresto dal Comando tedesco di Arzignano in seguito a tre denuncie per possibile collusione con i partigiani, pervenute a suo carico da parte delle autorità di Chiampo. Una di queste proveniva dallo stesso podestà. Il sottufficiale venne in seguito deportato in Germania come detenuto politico e non fece più ritorno
Il secondo fatto  è collegato a questo rastrellamento[5]. Alcuni soldati tedeschi, verso mezzogiorno di quel 5 giugno 1944, sorpresero un gruppetto di quattro partigiani, che era di passaggio in località Mistrorighi diretti verso la base di Durlo.  Due di loro, che camminavano una decina di metri distanti dai compagni, riuscirono a buttarsi nella vicina macchia, mentre gli altri due vennero fatti bersaglio da una fitta sparatoria. Compresero subito che qualsiasi reazione sarebbe stata inutile e così gettarono via le vecchie pistole a tamburo che avevano in dotazioni ed alzarono le mani. 
I due erano  Illido Garzara  “Sgancia” e Lionello Doni “Ceseta”.  Furono perquisiti e poi, caricati da pesanti zaini, avviati verso Chiampo. 
Furono condotti a Chiampo e qui consegnati ai fascisti. 

Cominciarono così le loro sofferenze: 

furono percossi in maniera brutale - in piazza -,  presi a pugni, a calci, umiliati con sputi e sottoposti persino a finte fucilazioni contro il muro del municipio. 
Due ore durò quel supplizio e poi vennero trascinati nella stazione dei carabinieri e rinchiusi in una cella, ove rimasero per oltre tre ore. I carabinieri li trattarono con umanità, portando loro persino da mangiare, ma i prigionieri non erano proprio in grado di gradire.
Verso le cinque di sera i tedeschi riapparvero nuovamente, caricarono i due su una camionetta e li portarono ad Arzignano nel palazzo in cui aveva sede il loro comando, il palazzo Mattarello. Attraverso un interprete furono sottoposti ad uno stringente interrogatorio teso ad avere informazioni sul movimento partigiano. Le risposte che essi diedero furono volutamente confusionarie nel tentativo di salvarsi la pelle senza compromettere la sorte dei compagni. Evidentemente non furono creduti dal comandante tedesco che conduceva l'interrogatorio, perché ad ogni risposta sbatteva con violenza il frustino  sulla scrivania, alzava la voce e pronunciava frasi incomprensibili ma che suonavano molto da minacce. Tuttavia, durante la mezz'ora in cui rimasero nel suo ufficio, egli non toccò i prigionieri neppure con un dito. Alla fine li licenziò e li fece rinchiudere in una cella.

Proprio in quelle ore avveniva  il terzo fatto di quella convulsa giornata. 
Quello stesso giorno, un'altra pattuglia partigiana comandata da Mario Molon “Ubaldo”,  spostandosi da Selva di Trissino verso Montebello era passata per Restena e si era accampata in un bosco nei pressi della località Calpeda, tra il Costo e il Castello di Arzignano. 
Questa pattuglia apparteneva alla XXX brigata garibaldina “Garemi”e precisamente al battaglione “Stella”, che aveva il comando nella Valle dell'Agno.
Era una delle cosiddette “pattuglie volanti”, quelle cioè che avevano il compito di spostarsi in piena autonomia lungo itinerari prestabiliti, colpendo fascisti e tedeschi in maniera da disorientarli.
La pattuglia volante di “Ubaldo” quando passò per Restena fu purtroppo notata da una donna, Maria Boschetti, che sarebbe divenuta poi la famosa e famigerata Katia.
Costei corse subito ad Arzignano ad avvisare le autorità fasciste.

Fu così che verso le ore 18  in località Calpeda, quando “Ubaldo” entrò da solo nella casa di un certo Lovato per chiedere acqua e viveri per i propri partigiani, accampati poco lontano,  l’abitazione fu subito circondata da una quindicina di  militi fascisti. “Ubaldo” si difese con le armi che possedeva, una pistola e alcune bombe a mano, ma venne catturato. Nel bosco vicino i suoi compagni, sentiti gli spari e gli scoppi, hanno capito tutto e hanno avuto così il tempo di mettersi in salvo.  
Con “Ubaldo” venne fatto prigioniero  anche il padrone della casa Giovanni Lovato, accusato di sostenere i partigiani.
Vennero presi anche  Graziano Gobbo, Carlo Bevilacqua e Novenio Concato, che si trovavano lì per caso. 
I fascisti, prima di lasciare la contrada Calpeda, diedero fuoco alla casa del Lovato e al fienile, razziarono le galline e, per divertimento, uccisero persino  il maiale. I cinque, verso le 19,  dopo stringenti interrogatori, legati mani e piedi con un filo per impianti elettrici, furono gettati in quella cella  dove erano stati rinchiusi anche gli altri due, "Sgancia" e "Ceseta", catturati nel rastrellamento della mattina e già sottoposti a tortura nella piazza di Chiampo. Tra i cinque nuovi prigionieri "Ubaldo" era quello che portava maggiormente i segni dei maltrattamenti subiti 
In quella cella quindi si sono intrecciati i tre fatti di quel giorno: la diserzione in massa dei militari, il conseguente rastrellamento con la cattura di "Ceseta" e "Sgancia" ed infine la cattura di “Ubaldo” con gli altri quattro in casa di Lovato.

Erano lì rinchiusi tutti e sette da circa un’ora, quando riapparve il capo dei fascisti, il maggiore Mantegazzi, che scelse  Garzara, Molon e Lovato e li fece portare via.  Gli altri quattro, Doni, Gobbo, Bevilacqua e Concato, furono condotti a Vicenza, imprigionati e il 27 giugno avviati in un campo di concentramento in Germania. Torneranno, provati dalle sofferenze, solo dopo la Liberazione. 
I partigiani Garzara e Molon, con Giovanni Lovato furono quindi ricondotti a Chiampo per dare una lezione esemplare al popolo di questa città e della Valle.  
Essi ebbero quindi un supplemento di crudeli umiliazioni e bestiali sofferenze, ma mai rivelarono qualcosa che mettesse in pericolo amici e compagni. 

Verso le 20.30 i fascisti, prima di ucciderli, fecero venire il cappellano di Chiampo don Giovanni Brizzi, perché li confessasse, e pretendevano che lo facesse di fronte a loro, in pubblico. Don Giovanni coraggiosamente si rifiutò, li confessò ad uno ad uno in un’altra stanza e poi per salvarli, osservò che quei poveretti non potevano essere condannati senza processo. 
Il capo dei fascisti allora imbastì un processo–farsa, in cui egli fungeva da giudice e da accusatore, e che dopo urla, schiaffi e sevizie si concluse inevitabilmente con la condanna a morte dei tre.
Don Brizzi intervenne ancora, ma riuscì ad ottenere la grazia solo per Giovanni Lovato.  

Non si sa se questo è stato un bene per lui, perché fu mandato in Germania, nel campo di Buchenwald, ove morì il 17 febbraio 1945. 

Mario Molon “Ubaldo” e Illido Garzara “Sgancia” furono quindi condotti alla Calcara, sotto il campanile di Chiampo, dove, furono fucilati alle 21,30 di quel tremendo 5 giugno 1944. Questa la testimonianza di don Brizzi:  «Uno cadde fulminato subito ["Ubaldo"]; l'altro steso a terra chiese: maggiore, perdonatemi ... Il maggiore ordinò ad un milite di scaricargli sulla testa il fucile. Non essendo ancora morto, gli fu sparata addosso una seconda scarica. Ne ebbe il cranio fracassato e il cervello sparso sul terreno.

 

“Ubaldo”, Mario Molon  era un giovane di 25 anni, di Rovegliana, una frazione di Recoaro. Era commesso in un negozio di stoffe prima di aderire al movimento partigiano e fu uno dei primi perché partecipò al gruppo di Malga Campetto, quello che diede origine alla brigata garibaldina  Garemi.

  “Sgancia”,  Garzara Illido (Natale) era figlio di Antonio e di Parodi Emma ed aveva appena compiuto vent’anni. Era nativo di Fiesso d’Artico, vi aveva lavorato come apprendista calzolaio prima di raggiungere, con un gruppo di compagni della Riviera del Brenta, i monti della Valle del Chiampo  e unirsi alla Brigata Vicenza.

 Sia “Ubaldo” che “Sgancia” furono giustamente insigniti, alla memoria, della medaglia d’Argento al Valor Militare.

 [1] L'orario di partenza del treno risulta dalla relazione del partigiano "Turiddu", controfirmata da Giuseppe Marozin.

[2] Erano 36 secondo la testimonianza di Scauri Maria Bevilacqua resa il 13.8.1945:  risultano 35 invece nella Nota Riservata dei CC.RR. della stazione di Chiampo dell'1/2/1946 riguardante informazioni su Bertoli Benita. (95); risultano 43 nella relazione "Turiddu" firmata da Marozin.

[3]Il numero 6 è riportato nella testimonianza di Scauri Maria Bevilacqua (13/8/1945), nel rapporto giudiziario dei CC.RR. di Chiampo a carico dell'ex podestà Giuseppe Bertoli (9/8/1945)  La Relazione "Turiddu" afferma che la "squadra di patrioti [era] composta da Ciccio, capopattuglia, Belva, Drago, Palma e Caino. Quindi  erano in cinque

[4] Nota Riservata dei CC.RR. della stazione di Chiampo dell'1/2/1946 riguardante informazioni su Bertoli Benita. (95)

[5] racconto tratto da Lionello Doni, Partigiani e granelli di sabbia - Elementi di storia fiessese, 1986, Tiratura limitata, non in vendita, Distribuito dall'autore, pag. 14-15