Brigata Nino Stella

Eroi della resistenza nel vicentino

La mattina all'alba del quindici febbraio 1944, si videro passare per la strada Crespadoro-Campodalbero, alcune macchine di tedeschi e fascisti, che si portavano a Campodavanti per il primo rastrellamento. Furono mandati lassù dalle spie, che in questo periodo non furono poche, perché ben pagate, ad attaccare il primo gruppo di partigiani, ch'erano circa venticinque.

I giovani, colti all'improvviso, si misero in posizione per difendersi e verso le ore otto incominciò la battaglia.

Dato il piccolo numero e la scarsità delle armi, i partigiani, dopo aver resistito qualch'ora, un po' la volta si ritirarono, mettendosi tutti in salvo.

I tedeschi e i fascisti, trovata la via libera proseguirono fino a Campetto, sparando anche alla gente che si trovava nei boschi per tagliar legna. Arrivati a Campetto, sfondarono la porta della baita e vi entrarono. Quivi trovarono viveri, vestiario, utensili di cucina, che i partigiani vi avevano lasciato non potendo, così all'improvviso, trasportarli altrove, e bruciarono tutto.

In questo scontro i fascisti ebbero otto o dieci morti che furono trasportati lo stesso giorno sulle macchine, che fecero ritorno per la stessa via. I partigiani neanche un ferito.

Nelle settimane seguenti, circolavano in segreto fra la nostra gente, le voci  che i partigiani cominciavano di nuovo a riunirsi. il loro numero aumentava di giorno in giorno a causa dei frequenti richiami da parte dei fascisti. Ma ora non si stabilirono più sui monti, ma si sparsero nelle contrade, attenti di eliminare soltanto chí avrebbe fatto loro la spia.

La notte dal cinque al sei marzo, fu rapito e fatto sparire l'insegnante di Altissimo, che, a quanto si diceva, era in continue relazioni con i repubblichini a danno dei partigiani e sbandati. Ed ecco, allora, la prima visita in paese, dei fascisti, venuti a indagare qua e là per poter sapere qualche cosa sullo scomparso.

Le loro indagini si rivolsero anche agli alunni della scuole, che, o ignari affatto della cosa, o decisi di non svelar nulla, ammutolirono alle loro domande, tanto che qualcuno dei fascisti ebbe a dire, che: «i piccoli sono bene istruiti dai loro genitori per non danneggiare i partigiani!» E infatti per quante domande avessero loro rivolte, anche in seguito, mai ne ebbero soddisfazione. I piccoli cuori albergavano una fortezza e compattezza incomprensibile, che rasentava l'eroismo.

In quei giorni vennero a Marana anche il Sig. Segretario d'Altissimo e un suo compagno, per far ricerche sullo scomparso maestro. Questi due„ essendo degli ex fascisti, furono fermati dai partigiani, per sospetto che fossero spie e che cercassero di tradirli. Furono trattenuti fino a tarda notte e lasciati liberi dopo aver ricevuto dai patrioti una lezione da veri italiani.

A cagione di altre sparizioni di spie, le visite dei neofascisti si facevano sempre più frequenti, e non potendo riuscire nelle loro ricerche, sfogavano il loro rancore contro chiunque fosse caduto nelle loro mani.

Ed ecco, che cosa fecero a Crespadoro fascisti e tedeschi, ad alcuni paesani, il giorno sette marzo:

In quella sera un maranese, Bertoldi Luigi, si è recato d'urgenza a chiamare la levatrice per una sua sorella, che stava mettendo alla luce una creatura. Giunto a Crespadoro nell'ora del coprifuoco, verso le ore ventidue, fu arrestato da due militi di guardia e portato nelle scuole dove si trovavano i comandanti. Fu interrogato. Egli espose il motivo per la sua venuta in paese, ma non fu creduto, anzi Io presero per una staffetta partigiana. Gli diedero tante di quelle busse, che il giorno seguente dovette starsene a letto e per più giorni aveva la testa gonfia e la faccia contusa. Fu rilasciato dopo che lo ebbero portato dalla levatrice e accertati dell'entità della cosa.

Pure, la stessa notte, furono arrestati le due insegnanti di Durlo e due cugini di una di esse. Condotti nelle scuole furono tanto rnartorizzati, che i due giovani furono costretti ricoverarsi all'ospedale e le due maestre furono impiegate nell'ufficio del Provveditorato, poste sotto sorveglianza.

11 giorno seguente a questi fatti, gli abitanti di Crespadoro raccontarono che durante la notte, si udivano lamenti e le grida di disperazione di quei disgraziati e la mattina, partiti i barbari, trovarono nelle aule scolastiche ciuffi di capelli con la pelle attaccata e macchie di sangue sul pavimento e sui muri.

Al pomeriggio del diciassette marzo, verso le ore quattordici, si sentì una sparatoria nella contrada Sopracastello di Durlo. I fascisti, informati da qualche spia, erano venuti da Campofontana ove si trovavano di presidio. I partigiani e gli sbandati delle contrade fecero appena in tempo di fuggire. I fascisti fecero uscire gli abitanti dalle loro case, spaventandoli e minacciando di ucciderli e di bruciare le loro abitazioni. Dopo una continua sparatoria attorno le case, vi entrarono e le perquisirono. Dopo queste azioni, si ritirarono nei prati retrostanti, mandando sempre delle fucilate nelle porte e finestre. Intanto i borghesi, rientrati nelle loro abitazioni, tenevano loro d'occhio dal di dentro. Qualcuno si affacciò un po' troppo alla finestra, tanto che vi rimase ferito un giovane della classe del 1922, Cagliaro Silvio, e vi rimasero ferite e uccise anche degli animali. Nel frattempo che i fascisti perquisirono le case, i partigiani, fuggiti fecero un mezzo giro e si portarono nei pascoli verso le Sabionare. Un maresciallo fascista, appostato dietro un albero, ferì uno di loro, ma non fece più a tempo di ferirne altri, perché egli stesso rimase ucciso dai partigiani. I fascisti per vendicarsi del loro morto, presero un uomo del luogo, della classe 1909, Gaiga Luigi, glielo fecero portare alla cima della Casarola e, prima di lasciarlo libero, lo caricarono di busse.

IV°

Il secondo rastrellamento fu fatto nei giorni venti, ventuno e ventidue marzo. Al pomeriggio del venti, una squadra di fascisti, venne a Crespadoro. Parte di essi vennero a Marana e parte andarono a Durlo. Arrivati a Marana andarono per le contrade, in piccoli gruppi, in cerca di uova e latte. Quelli che andarono alla contrada Gebbani, penetrarono nella casa di Bauce Girolamo. Fra di loro si trovarono anche due fascisti da Castello di Valdagno, che alla famiglia. Bauce portavano dell'odio personale. Fecero uscire da casa i Bauce che stavano cenando, spaventandoli e facendoli mettere le mani in alto e perquotendo il tiglio maggiore. Perquisirono l'abitazione appropriandosi di mille lire e di prosciutti. Ritornati poi in paese rimasero nelle aule scolastiche per tutta la notte.

La squadra che si era portata a Durlo la notte del venti, prese il Parroco di quella frazione e lo condusse al cimitero minacciandolo di tùcilarlo se non avesse svelato dove si trovavano i ribelli, così chiamati dai fascisti, i partigiani e i giovani renitenti alle loro chiamate. Pure quella sera, in Durlo, fermarono il Dottore di Crespadoro, trattenendolo tino a notte inoltrata.

Il giorno ventuno vennero a Marana, passando per le contrade, domandando e cercando dove si trovassero i ragazzi. Si riunirono con quelli che si trovavano già in Marana e si avviarono assieme per Valdagno.

Il giorno ventidue, ritornarono nuovamente da Valdagno, e sempre a piccole squadre passavano per il nostro paese diretti a Campodalbero. primi di passaggio si fermarono nella contrada Pasquali. Arrivati d'improvviso, si accorse di un po' di movimento fuggitivo. Immediatamente circondarono la contrada sparando diversi colpi in aria. Un giovanotto. Dalla Valle Antonio, della classe 1919, era venuto con un tascapane prendere da mangiare per i giovani della contrada, che stavano nascosti in una caverna della montagna. Accortosi dei fascisti, nascose in una casa lo zaino, cercando nello stesso tempo di nascondere sé stesso. Ma non vi riuscì e cosi fu trovato un po' confuso. Interrogato, si scusò dicendo di trovarsi lavorare a giornata in quella famiglia, ma i fascisti, sospettosi, lo costrinsero a seguirli. Nel frattempo giunsero dal lavoro due giovanotti, Castagna Vittorio della classe 1915 e Cacciavillani Giovanni del 1917. Il maggiore di questi portava il cappello d'alpino, che lo teneva come ricordo della sua vita militare. Un giovinastro fascista gli si avvicinò e con disprezzo glielo tolse dalla testa portandoglielo via. S'incamminarono poi verso Campodalbero, conducendo con loro il giovane della classe 1919, che lasciarono libero appena giunti alla meta prefissa. Dopo questa prima squadra vi passarono delle altre per Marana. Saranno stato in tutti circa ottanta fascisti.

A Campodalbero vi rimasero tutta la notte, combinandone delle grosse. Bastonarono l'oste, ferirono un giovane, trovato fuori da casa dopo il coprifuoco. Osarono penetrare in canonica, martorizzare il Parroco e distruggere diverse cose di sua proprietà.

La mattina del ventitré partirono tutti e passando per Campodavanti si portarono verso Fongara.

V

Il giorno tredici aprile, giorno di fiera a Crespadoro e riscossione delle tasse, i partigiani si portarono in paese. Fecero uscire dalla caserma i carabinieri che, con la gente che si trovava in piazza, ascoltarono un discorso tenuto dal comandante dei. partigiani Marozini. Entrati poi in municipio, si appropriarono di tutto il denaro, che l'agente delle imposte aveva riscosso lasciandoli una ricevuta. Si recarono anche alla privativa per chiedere sigarette. Fu loro risposto che non ce n'erano. Allora vi fecero un'accurata perquisizione e trovarono tabacco in quantità d'accontentare loro, la gente che si trovava in piazza e ancora ne avanzarono per scorta all'appaltiere. Finiti i loro affari i partigiani si ritirarono lasciando il paese calmo. sotto la vigilanza dei carabinieri, che il giorno seguente venivano rinforzati da una squadra di militi fascisti. Il quindici aprile, sabato dell'ottava di Pasqua, verso le ore sette, una pattuglia di undici fascisti giunsero da Crespadoro, in piazza Marana.

Dopo essersi un po' fermati assieme, si sparsero per le contrade in cerca di uova e galline. In seguito si riunirono all'albergo per farsi preparare il pranzo.

Due di loro vennero anche a casa mia e per forza volevano una gallina. Al nostro rifiuto puntarono il fucile per ucciderne qualcuna che si trovava sotto il portico. Io mi sono opposto a tale atto per tema che s'incendiasse il fienile e dicendo loro che andassero cercarne in altre parti. Non l'avessi mai detto! Mi presero per un braccio e mi scossero minacciandomi di appostarmi al muro. Prima però di andarsene se ne appropriarono d'una gallina di una mia cugina.

Verso le ore dieci alcuni di loro stavano in cucina a discorrere con l'albergatrice e altri in piazza s'intrattenevano con il sig. Parroco.

Nel frattempo una squadra di partigiani del Batt.ne Caremi col loro comandante Pino, venuto al mattino per tenere un colloquio con Marozini, comandante del Batt.ne Pasubio, visto che i fascisti mai se ne partirono, si decisero di attaccarli col grido: «Alzate le mani» e con la sparatoria in aria. I fascisti, protetti dalla presenza del Parroco, alcuni fuggirono attraverso i campi con una corsa precipitosa e altri sì ritirarono nell'albergo facendo fronte ai partigiani sparando dalle fmestre. Durante questa lotta venne incendiata la stalla dell'albergatrice e nessuno poteva portare all'aperto le bestie che in essa vi stavano rinchiuse, cosicchè parte di essere perirono nell'incendio e altre vennero condotte all'aperto appena cessato il pericolo. Purtroppo in seguito all'asfissiamento del fumo, il giorno dopo morirono tutte.

I partigiani, trovandosi all'aperto, dopo poca resistenza, si ritirarono con la sventura di aver il loro comandante Pino, ferito a una spalla, e che fu medicato in contrada Scaggi.

Nelle scuole c'erano gli alunni, che assieme alle maestre, vi rimasero rinchiusi, buttati sul pavimento durante tutta la lotta.

Cessata questa, le insegnanti, facendoli passare per una siepe e attraverso i campi, li condussero a salvamento.

Intanto i fascisti, che prima erano fuggiti, giunti a Crespadoro, telegrafarono al loro comando e alle ore quattordici era già arrivata una macchina dì tedeschi e fascisti, in rinforzo. Giunti però a Crespadoro parte di loro dovettero scendere dalla macchina e fare la strada a piedi. Questi, mentre arrivarono alla contrada Conte, scorsero un giovane sbandato della classe 1925, Bauce Lino, fuggire lungo la strada, che conduceva al bosco. Tutti puntarono le armi sul malcapitato, accompagnandolo, con uno sparo rabbioso per circa duecento metri. Il giovane correndo e strisciando ventre a terra, riuscì a sottrarsi alla raffica nascondendosi nel bosco, riportando una ferita alla gamba e una semplice graffiatura alla fronte.

I fascisti, giunti a Marana e venuti a conoscenza dell'accaduto si sparsero per le contrade Chele, Cavaliere, Pasquali e Castagna, sparando come matti e spaventando la gente, sperando ricavar loro qualche informazione riguardante i partigiani, sperando di catturarne qualcuno. Arrivati nelle contrade Cavaliere e Castagna fecero uscire dalle case tutti gli abitanti, mettendo gli uomini da una parte, le donne e i bambini dall'altra, interrogandoli se avessero visto i ribelli e altre cose a loro riguardanti.

Nella mia contrada Pasquali vi giunsero con una rabbia infernale più che altrove. Per ben spaventarci vennero anche i due fascisti che al mattino furono in casa mia. Ci fecero uscire tutti dalle case, riunendoci sull'aia. Con noi si trovava anche un signore con la sua sposa, fuggito dalle sgrinfie fasciste e tedesche e rifugiatosi quassù per evitare il lavoro obbligatorio o per essere trasportato in Gertnanig essendo ingegnere (1) I ragazzi renitenti di leva, invece, sì trovavano nascosti in una camera. Potete immaginare il loro spavento, sentendo la voce rabbiosa e superba di un maresciallo tedesco, che sparando come un forsennato sui muri, minacciava di ucciderci tutti e di bruciare le case! In seguito ci avviarono, noi uomini alla piazza di Marana. Lungo la strada, arrivati nella valle del Bociero, videro una squadra di armati, che attraversavano i pascoli dei Castelletti. Era la pattuglia andata alla contrada Castagna. Ma i fascisti e tedeschi, che ci accompagnavano, credendoli ribelli, postarono subito il fucile mitragliatore, sparando loro diverse raffiche. Arrivati alla contrada Cavaliere avviarono con noi anche gli uomini di quella contrada e, giunti in piazza, ci fecero salire tutti sull'autocarro. Dopo circa un quarto d'ora ci fecero scendere mettendoci in fila davanti all'albergo per interrogarci. In quel momento avvistarono ì soliti armati che scendevano dalla strada del 'Troie per venire in piazza. I nostri aguzzini, in fretta e furia, ci fecero scendere nelle cantine dell'albergo, mentre loro sparavano con il fucile mitragliatore contro coloro che stavano arrivando, credendoli partigiani. Fortuna loro che non sono stati buoni tiratori e non uno rimase ucciso.

Fattici uscire dalle cantine ci rimisero in fila per interrogarci e chiederci i cdocumenti. Più di tutti furono presi di mira Castagna Vittorio della classe 1915 e Cacciavillani Giovanni della 1917, dei quali avevano già ritirate le carte. Anche l'ingegnere milanese si trovava nell'imbroglio, poiché non era in possesso della carta di lavoro. Ma grazie all'intervento del Sig. Parroco, vennero lasciati liberi rutti e tre e cosi. tutti assieme siamo ritornati alle nostre case, mettendo fine a questa triste giornata.

VII°

Il giorno diciassette aprile, mentre la gente usciva dalla chiesa, dopo la santa Messa, circa una ventina di fascisti, si trovarono già in piazza. Fermarono tutti gli uomini e, dopo di aver preso conoscenza dei documenti di ciascuno, li lasciarono liberi.

Due però: Bertoldi Gabriele della classe 1912 e Dalla Pozza Lino della classe 1922, furono portati a Crespadoro e dopo l'accertamento della loro inabilità al servizio militare, furono lasciati liberi

VIII'

Il giorno ventisei aprile, passarono per Marana, dei partigiani diretti andare
a Durlo presso la sede del loro comando. Erano tutti lieti e sereni,
cantavano allegramente, e qualcuno di loro portava degli strumenti

IX°

Verso le ore nove del giorno ventisette aprile, passarono da qui una tredicina di partigiani, partiti da Durlo. Si fermarono al Dopolavoro alla contrada Ortomanni. Alcuni di loro erano armati. Verso mezzogiorno si cominciò sentire dei colpi di fucile e si venne subito a conoscenza, che i partigiani erano assaliti tra Brassavalda e Bocchetta del monte. Le raffiche di mitraglia e le fucilate, infuriarono da due, tre ore. Intanto, da Durlo, arrivarono circa una quarantina di partigiani con il loro comandante Vero e si fermarono nella contrada Pasquali. Di questi soltanto una decina si trovavano armati.

Per ordine del comandante quattro di loro partirono per recarsi all'albergo per prendere del vino. Mentre stavano per arrivare in Piazza, videro e furono visti dai fascisti, che prima di loro erano munti all'albergo. I partigiani fecero dietro-tronfi a gambe levate. Quando giunsero presso la contrada Pasquali, i fascisti che li seguirono furono alla contrada Chele, ove, trovato un uomo, Dal Chele Angelo fu. Domenico, gli chiesero se avesse visto passare dei partigiani. Al suo diniego gli appiopparono due schiaffi sonori, stordendolo per parecchie ore. Indi ripresero il loro inseguimento, cominciando sparare col fucile mitragliatore. Intanto una famiglia di contadini della contrada Pasquali, sí trovava in mezzo la strada, difronte ai fascisti sopraggiunti, che al controattacco dei partigiani, sostavano per un momento. Questo bastò perché partigiani. e borghesi potessero mettersi in salvo. Solo una ragazza, 'Bertoldi Rina, rimase leggermente ferita al collo, da una scheggia di rimbalzo di una pallottola. I partigiani, riunitisi ancora nella contrada Pasquali, per ordine del comandante, volevano resistere e far fronte, ma dietro le suppliche delle donne, si sono ritirati nei boschi. Poco dopo arrivarono in contrada i fascisti, che chiesero da quale parte fossero fuggiti i ribelli. Per fortuna nostra non sapevano di quelli che erano in contrada, essi credevano che ci fossero soltanto quei quattro che hanno visto fuggire.

Quando la lotta alla Brassavalda era quasi finita, tedeschi e fascisti andarono con un'autoblinda fino alla contrada Gebbaní e con il cannoncino e la mitragliatrice sparavano qua e là sul monte, incendiando una baita, che serviva al riparo delle bestie. Finita questa sparatoria, si concentrarono tutti in piazza Marana, trascinandosi dietro sette giovani. Sei di questi, partigiani, li avevano catturati durante la lotta e uno lo hanno preso alla contrada Ortomanni. Quest'ultimo non faceva parte con gli altri sei, perché non aveva anni e non era partigiano. Con questi catturarono anche due miei paesani, Gecchele Giuseppe della classe 1922 e Ferrati Francesco del 1923, tutti e due in possesso delle carte di riforma.

Dal luogo di cattura i poveri partigiani presero tante di quelle percosse, che ad uno di loro venne frantumata persino una gamba. Giunti a Crespadoro furono martorizzati all'eccesso perché svelassero i loro compagni, ma. inutilmente. Messi al muro, impavidi, forti nella loro idea patriottica, subirono stoicamente la fucilazione, venendo cosi dichiarati dalla popolazione: I sette Martiri.

Invece i miei due paesani andarono esenti dalla morte, perché alcuni fascisti volevano fucilarli a Crespadoro, altri in Altissimo. Ma un comandante tedesco invece, decise di portarli a Vicenza, da dove vennero inviati in Germania, in un campo dì concentramento. Vi rimasero in mezzo alle sofferenze e maltrattamenti fino alla cessazione della guerra.

 

Nel mese di maggio pattuglie di partigiani passavano di nottetempo per le nostre contrade, per evitare noia alla popolazione.

All'alba della mattina del ventun maggio si sentirono raffiche di mitraglia e colpi di fucile in direzione della Scaggina. Erano i fascisti e tedeschi di presidio a Campofontana, che avevano attaccati i partigiani, che da poco si trovavano accampati nelle baite di Faresele. Gli assalitori, approffittando dell'oscurità del mattino, guidati da gente pratica dei luoghi, si appostarono sulla cima del Laghetto, dominante la conca e le baite della malga. Colsero all'improvviso e uccisero le sentinelle di guardia, una in cima alla Scaggina e l'altra fuori la porta della baita. I partigiani che stavano in essa rinchiusi, non potevano uscire dalla porta perché questa si trovava alla parte scoperta e perciò sotto il tiro del nemico, sicché fuggirono per una finestrella opposta e fatti una ventina di metri a carponi, raggiunsero la valle e si poterono salvare. Però, lungo il breve tragitto, vi rimasero dei feriti. il partigiano rimasto ucciso sulla cima della Scaggina, aveva solamente quattordici anni, e ferito a morte, disdegnò l'assistenza dei tedeschi e fascisti, trattandoli da delinquenti e traditori. Al ritorno i nazifascisti bruciarono le baite di Sotto e Sopra Laghetto.

XI

Il giorno sette giugno, alle ore venti, sotto una pioggia torrenziale, i partigiani scesero a Crespadoro e disarmarono ventidue tra carabinieri e militi fascisti. Sedici si sono subito arresi, ma gli altri sei, che non volevano cedere, furono uccisi. In quella sera anche la famiglia dell'ex-fascista Tagliapietra Giuseppe, detto Mistro, di Crespadoro ebbe subire l'interrogatorio e perquisizione da parte dei partigiani. Fu portato con la sua famiglia sul luogo ove vennero trucidati i "Sette Martiri" il ventisette aprile e là, dovette scontare la pena per lui stabilita e versando parecchie migliaia di lire. All'appello dei familiari. mancava il figlio maggiore, che poi si presentò e gli fu rievocato quello che aveva detto, e cioè: «che il paese di Marana„ starebbe bene bruciato!».

il giorno seguente ci si aspettava di sicuro qualche visita brutale dei repubblicani. La mattina dell'otto giugno si venne soltanto a conoscenza dei fatti accaduti la sera prima. Tutta la popolazione di Marana era terrorizzata, tanto che neanche un parrocchiano si recò ad ascoltare la S. Messa.

Dopo mezzogiorno, alle ore quattro, si sentirono delle macchine andare a Durlo, trasportandovi dei repubblichini. Costoro trovarono cinque moschetti in una casa che serviva da latteria, nella contrada Sopra Castello e la bruciarono.

Compiuto questo disastro, si avviarono per Campodalbero, ove trascorsero la notte. Al mattino del giorno nove, volevano andare verso Campodavanti e costrinsero un uomo del luogo, che facesse loro da guida. Arrivati a una certa altezza, gran parte di loro non ebbero più coraggio andare avanti, per tema di trovare i partig. Gli altri si spinsero ancora per qualche centinaio di metri fino al punto detto Vaio di Mesole e poi anche a loro mancò l'animo di proseguire e ritornarono indietro. Al ritorno dì questa marcia di escursione, si fermarono in rinforzo ai loro camerati fascisti e tedeschi assaliti dai partigiani alle ore dieci, lungo la strada Ferrazza­S.Pietro. In questa battaglia, durata fino a sera, diversi fascisti e tedeschi vi trovarono la morte. I sopravviventi per vendicarli e frati di non essere capaci di catturare neanche un partigiano, a colpi di cannone di un'autoblinda incendiarono una contrada vicina a Crespadoro, detta Slavina.

XII°

I giorni dieci, undici, dodici giugno, furono abbastanza calmi, vi furono molte chiacchiere e commenti, ma non gravi conseguenze.

Invece il giorno tredici, verso le ore quindici, si cominciò sentire verso Bolca il crepitio della mitraglia e il rumore delle altre armi. Poco dopo si vedevano alzarsi verso il cielo colonne nere di fumo e noi si pensava provenissero da qualche deposito di carbone o qualche fornace di calce. Ma in seguito, il fumo si allargava sempre più e verso le ore diciotto si senti nuovamente la mitragliatrice, che da diverso tempo se ne stava silenziosa. Le raffiche durano fino a tarda sera, mentre noi, che assistevamo al triste spettacolo, vedevamo il fumo rosso illuminato dall'incendio che divampava dalle ore quindici.

Verso le ore ventitré si sentirono quattro forti colpi e si è subito visto l'incendio che in un quarto d'ora si era dilagato per tutta una contrada.

Compiuto questo disastro, si avviarono per Campodalbero, ove trascorsero la notte. Al mattino del giorno nove, volevano andare verso Campodavanti e costrinsero un uomo del luogo, che facesse loro da guida. Arrivati a una certa altezza, gran parte di loro non ebbero più coraggio andare avanti, per tema di trovare i partigiani. Glì altri si spinsero ancora per qualche centinaio di metri fino al punto detto Vaio di Mesole e poi anche a loro mancò l'animo di proseguire e ritornarono indietro. Al ritorno di questa marcia di escursione, si fermarono in rinforzo ai loro camerati fascisti e tedeschi assaliti dai partigiani alle ore dieci, lungo la strada Ferrazza­S.Pietro. In questa battaglia, durata fino a sera, diversi fascisti e tedeschi vi trovarono la morte. I sopravviventi, per vendicarli e irati di non essere capaci di catturare neanche un partigiano, a colpi di cannone di un'autoblinda incendiarono una contrada vicina a Crespadoro, detta Slavina.

XIII°

11 giorno quattordici giugno si venne a conoscenza dei particolari
dell'accaduto del giorno precedente. Un dato numero di fascisti erano
arrivati con le macchine a Vestena per assalire i partigiani. Ma lungo la strada, furono assaliti alla loro volta furiosamente e uccisi gran parte di essi, con la distruzione delle macchine. Vista la brutta piega della faccenda, i fascisti si sono vendicati, bruciando le case dei contadini delle contrade Zovo di Vestena e Bruciaferri di Bolca. Più di duecento di loro trovarono la morte in quella battaglia, mentre i partigiani rimasti tutti illesi, fecero prigionieri due tedeschi e si portarono via una macchina.

 

XIV

Il giorno quindici giugno, verso le ore sette, si cominciarono sentire delle raffiche di mitragliatrice e colpi di fucile a Campofontana e si facevano sempre più frequenti verso le ore otto.

Al momento non si poteva sapere nulla di preciso, si dubitava soltanto che i partigiani avessero attaccato il presidio fascista che si trovava nelle scuole di Carnpofontana.

 

XV

 

Il giorno seguente, sedici giugno, ci giunsero i particolari della lotta.

I partigiani avevano fatto un accordo con i fascisti, i quali promisero loro, di lasciarsi prendere e condurre via senza colpo ferire. I partigiani, credendo alla parola data dai fascisti, si avvicinarono tranquillamente alla caserma, tanto più che videro sventolare un fazzoletto in segno di resa. Ma quando furono circa cento metri di distanza, i traditori apersero un fuoco infernale sui partigiani, che, vedendosi ingannati, passarono al controattacco. In quella confusione fuggirono molti repubblichini e parecchi rimasero morti. I pochi rimasti, i più sfegatati, resistettero continuando a far fuoco dalle finestre delle scuole, trovandosi, allo stesso tempo, al sicuro dall'assalto dei partigiani.

Questi, visto la malaparata, dopo tre ore di combattimento, hanno dovuto ritirarsi. Quattro di loro rimasero feriti e uno morto. Questi era un nostro paesano: Consolar° Antonio. Nacque a Durlo il 15.9.1916 e rimase orfano della Guerra 1915-18. Fu un giovane esemplare di virtù cristiane, uomo di profondo studio e poliglotta Durante la guerra meritò il grado di Sergente Maggiore dì Artiglieria Alpina. Divenne ardente patriota 1'8 settembre 1943 per la liberazione della Patria dall'oppressione crudele nazi-fascista. Al glorioso eroe vada tutta la nostra ammirazione e il nostro affettuoso ricordo.

 

 

 

 

 

 

XVI°

Nei giorni seguenti, fmo al venti giugno, subentrò una calma abbastanza confortante. Si udivano molte chiacchere, ma sparatorie, nessuna.

La notte del venti i partigiani fecero saltare la centrale elettrica di Ferrazza.. Da questo fatto, si aspettava e si temeva qualche visita poco gradita da parte dei repubblichini e tedeschi. Infatti al mattino del ventidue, si videro arrivare delle macchine a Crespadoro, che proseguirono poi tino a Campodalbero. Ma una squadra di venticinque tedeschi, arrivati a Ferrazza, presero la strada che conduce a Zancon. Qui presero un borghese per farsi insegnare la strada per venire quassù.

Ogni contrada che passavano, facevano tappa, cambiando guida.

In questo modo giunsero fmo a Campetto, con la speranza di trovare i ribelli, ma rimasero con un palmo di naso. Intanto quelli che si sono portati a Campodalbero, parte si sono spinti fmo al monte Anzin e altri tino a Farasele. Non trovando coloro che cercavano, ritornarono indietro e poco dopo mezzogiorno si trovarono tutti radunati a Campodalbero. Erano circa in duecento. Montarono sulle macchine e presero la via del ritorno. Ma arrivati tra Crespadoro e Fenrazza trovarono coloro che tutta la mattina avevano inutilmente cercato, cioè i partigiani. Questi, appostati sulle colline fiancheggianti la valle, cominciarono una lotta spaventosa, sparando con le mitragliatrici sulle macchine. Questo combattimento, incominciato alle ore sedici ebbe fine verso le ore venti. I tedeschi vedendo di non poter riuscire nel loro intento e cioè, di non poter uccidere o catturare i partigiani, si vendicarono bruciando le tre contrade: Bordellini di Crespadoro.

La stessa sera venimmo a conoscenza che i nazi-fascisti avevano ucciso cinque borghesi, mai particolari ci giunsero il giorno seguente: Quattro uomini fucilati furono presi nelle loro case. Era gente innocua, disarmata. Tre, erano della contrada Ferrari di Crespadoro e uno di Ferrazza di Crespadoro.

In una delle contrade Bordellini, mentre le case ardevano, gli abitanti cercavano di mettersi in salvo con la fuga. Una giovane di vent'anni, inginocchiata presso una finestra,, fu colpita da una palla da cannoncino. Sua madre accorse in suo aiuto, ma intanto i tedeschi, sopraggiunti, strapparono la figlia dalle braccia della madre e la finirono col calcio di fucile. Ma non bastò ancora: dopo morta, la schiaffeggiarono e le

pestarono íl volto con le loro scarpe ferrate, da lasciarvi le impronte delle borchie.

Al detto dei tedeschi, rimasero di loro soltanto quattro morti, sulla strada vicina a Crespadoro, ma si dubitava vi siano rimasti di più, dato che le macchine crivellate perdettero una gran quantità di sangue lungo la strada e una macchina fu deviata in un prato.

Il giorno seguente di questo disastro, venne sopraluogo il nostro Ecc.mo Monsignor Vescovo, per informarsi dell'accaduto e per portare la sua parola di Padre e Pastore alle famiglie sì duramente provate dalla sventura. Chiese pure ai tedeschi, che almeno stessero assenti e chieti nel giorno in cui sarebbero venute sepolte le cinque vittime.

Ma il giorno ventiquattro, quando una gran massa di popolo stava adunata in piazza per accompagnare all'ultima dimora le care salme, i tedeschi scesero dal monte Gromenia. Parte di loro si portarono direttamente in piazza e parte sí appostarono ai lati della valle con un cannone e mitraglia. credendo e sperando che fra gli assistenti al funerale ci fossero i partigiani. La gente, al sopraggiungere di quei briganti, scappò via per paura di essere presa e uccisa o trasportata in Germania. Visto in seguito, che nulla potevano fare e ottenere si ritirarono facendo trascinare il cannone su per il monte dagli animali di un contadino.

 

XVII

In questi giorni di tanto terrore e di tante stragi, si viveva in continua paura, per tema che venissero i tedeschi a bruciare, portar via qualcuno o uccidere. Si sapeva ormai che dove passavano quegli innumani, lasciavano traccie delle loro barbarie.

Tutti gli abitanti, chi più, chi meno, nascosero biancheria, vestiari, calzature, mobili, attrezzi in luoghi sicuri dall'incendio, continuando raccomandarsi al Signore e alla Madonna, di preservarci da tante sventure e di tenerci lontani quei diavoli incarnati.

Intanto, si vedeva gran movimento tra i partigiani, che giravano nelle nostre zone e che il numero sempre crescente di nuovi sopraggiunti, anche dai paesi lontani, ingrossavano sempre più le file.

XVIII°

It giorno quattro luglio, alle ore diciotto, arrivarono da Valdagno due camion di tedeschi. Giunti alla contrada Bosco, s'incontrarono con i partigiani e qui, successe una scaramuccia. Due ragazze e due ragazzetti non ancora quindicenni, della contrada Bosco, furono presi e messi sui camion per essere condotti via, ma poterono fuggire ai loro rapitori, durante la breve lotta e mettersi in salvo.

I tedeschi, furenti d'ira, si mossero per la volta di Valdagno, e arrivati alla contrada Bertoldi, catturarono un altro ragazzo di quindici anni, Dal Chele Domenico, ma anche questo, dopo un po' di strada, riuscì fuggire.

Giunti alla contrada Zovo, si fermarono e presero con loro la famiglia del fascista Castegnaro e caricando sulle macchine tutta la mobilia di costui.

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11 giorno cinque luglio, all'alba, dalle contrade sottostanti al nostro paese, si cominciò a sentire la mitraglia e colpi di cannone. I partigiani, appostati più in alto, vista la superiorità del nemico avanzante, fornito di armi corazzate, si ritirarono senza apporre resistenza. I tedeschi, avvicinati alle case, appiccò loro fuoco. Le prime cannonate furono dirette al campanile e al muro della stalla del Rev.Parroco. I maranesi terrorizzati, uomini, donne, bambini, fuggirono abbandonando le loro case, portandosi dietro quel poco che potevano e lasciando le bestie in balia al loro destino per prati e campi. Si nascosero tutti nei boschi, cercando di fare il più silenzio possibile per non essere scoperti, se ci fosse passata qualche pattuglia e uccisi.

E' indescrivibile il dolore, l'apprensione che in quel giorno si leggeva su questi volti spaventati, rassegnati, ormai, a una morte barbara e sicura! Rannicchiati tra i faggi o nelle caverne, a gruppi o isolati, pregavano e piangevano. E quale non fu la costernazione di tutti quando videro alzarsi in alto le nuvole di fumo e giungere loro l'odore di bruciato!

11 loro cuore pareva si spezzasse in petto dal dolore di veder distrutte le case e non poter correre all'aperto per spegnere l'incendio. Erano momenti veramente orribili e, questa angoscia durò tutta la giornata. In questo giorno di distruzione, furono bruciate per le prime le case e stalle della contrada Conte. Casa e stalla a due famiglie della contrada Meceneri, e alle altre famiglie, la stalla. Alle contrade Cattazzi e Corte, le stalle. In Marana distrussero l'albergo di Filippini Rosa; tutta la contrada Chele, eccetto una piccola casa dei fratelli Dal Chele, salvata. dal Rev. Parroco e da Guglielmo Dalla Valle.

In contrada Cavaliere furono distrutte tre stalle, e dieci ne furono distrutte in contrada Castagna e di più, la casa di Castagna Giuseppe.

Nella contrada Gebbani, furono bruciate le stalle di tre famiglie e uccisero barbaramente un uomo Bauce Girolamo, di 69 anni, perché voleva spegnere l'incendio della sua stalla e perché pregò i nemici che non incendiassero. Ancora in contrada Gebbani condussero via il cavallo del povero ucciso e quello di Bauce GioBatta.

Presero delle ragazze rimaste in casa, le condussero nei campi di frumento per brutalmente violentarle, e, non potendo riuscire nei loro bassi intenti, le lasciarono libere dopo averle ben percosse.

Più in basso dettero alle fiamme anche la villa delle Marine di Valdagno; le quali vennero sospettate essere in parte la causa di tutti i mali per aver tatto denuncia presso il comando tedesco, dell'occupazione della villa da parte dei partigiani.

Anche la contrada Franchetti fu incendiata, e distrutta, fuori che una piccola parte di casa di Ferrari Biagio. Ma anche qui spaccarono sedie, tavole, utensili di cucina e tutto ciò che vi trovarono. La contrada Franchetti (Ortomanni) era composta di cinque famiglie. Una di queste, quella di Pellizzari Luigi, teneva una piccola bottega di generi alimentari ove si serviva la maggior parte del paese.

La contrada Bosco è stata pure distrutta dalle barbarie tedesche e fasciste. Rimase incolume soltanto la casa di Ferrari Giuseppe.

Di questa contrada rimase pure vittima una giovane di diciannove anni: Ferrari Maria di Francesco, giovane buona e assai stimata.

Quella mattina al sopraggiungere delle orde barbariche, si trovava nascosta nel bosco, poco distante da casa, con le sue sorelle, una cugina e un'altra ragazza di ventiquattro anni: Repele Assunta di Pietro, della contrada Conte. Anche questa. Repele, trovandosi vicina alla Ferrari, rimase gravemente ferita e spirò dopo ventiquattr'ore di dolori atroci. L'autore di questi delitti fu un fascista che sparò loro a pochi metri di distanza.

Non bastando questo, ai poveri abitanti di Bosco, portarono via anche tutte le bestie.

Nella contrada Scaggi lasciarono qualche casa quasi inabitabile e il resto distrutto tutto.

Nella contrada Sottocengio uccisero una ragazza: Mecenero Lucia di Celeste, d'anni quarantacinque con una bomba a mano, spaccandole la testa, mentre stava uscendo da casa.

Anche qui uccisero e portarono via tutte le bestie.

Nelle contrade Grobbe e Ferrari, distrussero stalle e uccisero le bestie.

Nelle contrade Bertoldì distrussero completamente tutto, lasciando neanche un tetto. Portarono via le bestie e quelle di soprannumero le uccisero e le lasciarono sul posto.

E così fecero nelle contrade Zovo, Franchi e Tomba.

In questo stesso giorno, cinque luglio, carri armati si portarono lungo la strada Ferrazza-Campodalbero fino ai Pezzolati. Lungo la strada si fermarono per sparare col cannone nelle baite campestri delle rive di Durlo, riducendole in macerie: nelle case della contrada Longheri, danneggiandole e nelle roccìe fiancheggianti la strada. In una di queste rocce vi stava nascosta una giovane sposa coi suoi due bambini. La madre e la bambina rimasero uccise sull'istante e il bambino dece[de}va pochi giorni dopo all'ospedale. La sera dello stesso orno, all'imbrunire i più coraggiosi uscivano dai nascondigli e incoraggiavano i più deboli e spaventati andare a casa. Ma questi risposero con voce di pianto: «Casa?...quale casa, che non l'abbiamo più!...[»] e rimasero nei loro nascondigli per tutta la notte. Ci furono delle madri, con cinque, sei bambini, che con un sorso di latte dovevano calmare la loro fame e sete, tutti piangenti, tremanti, fino al giorno seguente, Quale pietà!

I più forti ritornarono di notte tempo per spegnere gli incendi e per poter salvare qualche cosa se era possibile.

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Tutto questo accadde nell'infausto giorno del cinque luglio 1944. Non si può descrivere il tenore di cui furono invasi gli abitanti di quassù in quei giorni. Parevano tutti impazziti dagli spaventi.

Ed è pure incredibile l'aiuto e la carità fraterna, che gli sventurati trovavano nei paesani non colpiti Questi si davano la gara a chi più poteva fare e offrire. Sicché i poveri disgraziati trovarono vitto e alloggio nel paese natio e parole di conforto e di coraggio. Ammirabile fu l'opera solerte di Padre e Pastore, esplicata dal Rev.Parroco Don Ottavio Mazzocco, che sfidando ogni pericolo, si portava sempre là ove maggiormente gravava la sventura. E nei giorni seguenti si prodigò tutto per ottenere alimenti e vestiti per i colpiti.

Al nostro Rev.Parroco vada tutta la nostra riconoscenza e rispetto filiale.